sabato 22 agosto 2009

Le "Antiche Pietre" mediterranee del tango jazz

Domenica 23 agosto al Teatro Marcello in Roma,nell’ambito dei Concerti Del Tempietto Giuliana Soscia & Pino Iodice Italian Tango Quartet presenteranno i brani del nuovo cd "Antiche Pietre".



Jorge Luis Borges ha scritto: "I metafisici non cercano la verità, e neppure la verosimiglianza, ma la sorpresa. Giudicano la metafisica un ramo della realtà fantastica". Giuliana Soscia e Pino Jodice sembra abbiano preso questo concetto e lo abbiano trasposto incoscientemente nella loro musica. Questa condivisibile convinzione del grande scrittore argentino ha, nella sua disarmante semplicità, il suo ideale specchio sonoro nelle linee guida che hanno creato “Antiche Pietre”, il nuovo lavoro dell’Italian Tango Quartet. Rileggendo “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”, il racconto che Borges ha scritto nel 1940, scopriamo come stesse anticipando il relativismo estremo di certo postmodernismo; ascoltando le dieci composizioni, per l’ottanta per cento firmate da Soscia e Jodice, cogliamo la voglia di sorprendere senza per questo ricorrere a soluzioni ad effetto, usando il linguaggio culturalmente solido del tango filtrato da una creatività che conosce altro, guarda ad altro e, in definitiva, vuole diventare altro. L’Italian Tango Quartet, come Borges, si prende gioco di quelli che nascondono dietro un rigore formale una progettualità forte soltanto della conoscenza, ma priva della voglia di essere veramente inedita.
Sarebbe riduttivo definire “Antiche Pietre” un buon disco di tango-jazz. Riduttivo e, ancor più, sbagliato, perché nell’avvolgente fiume di note di “un pensiero triste che si balla” l’avvenente (quanto brava) Soscia e l’ormai navigato Jodice, hanno costruito un “piccolo monumento” alla discreta ecletticità del tango, grazie anche al prezioso supporto dei musicisti che hanno contribuito a realizzare questo progetto. Senza voler fare l’anatomia di ogni singola canzone, ogni brano propone diversi piani di ascolto, ognuno di essi compiuto ed autonomo. Li citiamo in ordine sparso affinché l’ascoltatore li possa cogliere a sua discrezione: spuntano spesso le varie matrici melodiche che compongono il famoso cinquanta per cento della natura italiana che ha creato il tango verso la metà dell’800; come la schiuma del mare che s’infrange sugli scogli affiorano gli archetipi del modern jazz; appaiono come la cosa più naturale possibile gli improbabili incroci tra culture sonore lontane come l’Argentina e la Scozia; rassicurano le dichiarate parti amorevolmente dedicate ai padri della musica nata a Buenos Aires; idealmente uniti dal filo che lega le perle, brillano i momenti di assoluta libertà espressiva, con il conseguente abbandono di qualsiasi costrizione formale ed, infine, emerge prepotentemente la natura mediterranea dei sui protagonisti, assolutamente pronti ad essere confermati figli prediletti del mondo. L’album “Antiche Pietre”, come il ballo del tango, è molto più che una posizione corretta (composizione riuscita) e un passo preciso (esecuzione perfetta). E’ il risultato di una riuscita alchimia di tanti ingredienti che, nonostante i loro sapori così diversi, suona coesa come, del resto, è successo al tango più di 150 anni orsono, quando nacque dalla fusione della musica europea, africana e gaucha. Siamo davanti a dei brani che oltre ad ascoltarli con gli orecchi si possono sentire scorrere nelle vene. “Antiche Pietre” è un cd fisico, viscerale, sudato, raffinato ed elegante. Una meravigliosa contraddizione in termini.

martedì 18 agosto 2009

Siamo tutti prigionieri di Mameli e Novaro


"Fratelli d'Italia" è soltanto brutto

E se “Fratelli d’Italia” fosse soltanto un brutto inno? E se tutte queste polemiche che lo coinvolgono da sempre dipendessero dal fatto che non riesce a piacere a quasi nessuno?
Ci sono ambiti in cui la capacità critica lascia il posto a delle ingenue convenzioni che seguono regole, per lo meno, buoniste.
Quante volte c’è capitato ascoltare amorevoli tenerezze di genitori verso i loro bimbi del tipo: “bello a papà”, “bella di mamma” e di prendere atto che, come dice il detto popolare, “ogni scarrafone è bello ‘a mamma soja”. Spesso quei teneri bimbi non hanno proprio nulla dello stereotipo del bebè da spot pubblicitario, anzi, tutt’altro. La regola “aurea” (ipocrita) vuole che “tutti i bambini siano belli”. Ma chi ha occhi per vedere, spesso deve fare uno sforzo di fantasia (e/o ipocrisia) e attendere fiducioso. Quanti “brutti anatroccoli” si sono trasformati, dopo l’età dello sviluppo, in avvenenti giovani?
Possibile che non siano bastati 53 anni (per la precisione dal 12 ottobre 1946, anno di “adozione provvisoria” dell’inno) al discusso “Fratelli d’Italia” per sbocciare e diventare un brano autorevole, fascinoso, rappresentativo e piacevolmente riconoscibile? A quanto pare no.
Scritto 99 anni prima di essere stato “adottato provvisoriamente”, da Goffredo Mameli per il testo e da Michele Novaro per la musica, “Il Canto degli Italiani” (questo il titolo ufficiale) ha goduto di una notevole diffusione in ambiti prettamente politici. Volendo fare un paragone con quello che succede oggi con alcuni brani pop che si avvalgono di notevoli spinte promozionali e raggiungono il successo a scapito di altri, più meritevoli, ma privi di un costoso ed aggressivo piano promozionale, l’Inno di Mameli fu proposto al momento giusto, negli ambiti che contavano per la storia. Inutile recriminare sulla totale mancanza di una corretta analisi musicale dei grandi protagonisti del nostro Risorgimento, doverosamente concentrati su problematiche vitali come “qui si fa l’Italia o si muore”. Poco importava che l’inno di quelle gesta fosse di basso livello estetico, formale, melodico e strutturale. Quello avevano, funzionava allo scopo per i suoi toni chiaramente repubblicani e quello cantavano.
Eppure il maestro Novaro ha vissuto in un periodo in cui risuonavano le grandi intuizioni di Giuseppe Verdi, Gioacchino Rossini, Gaetano Donizzetti, Vincenzo Bellini, senza dover prendere in considerazione i fragorosi echi che arrivavano dalla contigua Francia tramite le composizioni di Charles Gounod, Georges Bizet e Jules Massenet. Possibile che Novaro, secondo tenore e maestro dei cori dei Teatri Regio e Carignano a Torino e fondatore della Scuola Corale Popolare di Genova, non sia riuscito neanche lontanamente a cogliere gli insegnamenti dei suoi più altolocati colleghi? Del resto lo scarno curriculum del compositore dell’Inno di Mameli non aiuta la difesa della sua (unica) opera più popolare. Certo è che per qualsiasi musicista sarebbe stato arduo musicare la lirica di Mameli, per giunta in poco tempo, dopo un mese l’inno doveva essere eseguito sul piazzale del Santuario di Oregina e presentato ai cittadini genovesi e ad alcuni patrioti italiani in occasione del centenario della cacciata degli austriaci, suonato, in quell’occasione, dalla banda municipale di Sestri Ponente "Casimiro Corradi" (era il 10 dicembre del 1947). Dobbiamo prendere atto che “Fratelli d’Italia” si avvale di una composizione tecnicamente squadrata, mette in evidenza una melodia debole ed è massacrato da una scansione ritmica che ne annichilisce qualsiasi velleità tesa a regalare autorevoli suggestioni. Il grande artista pop Andy Wharoll, ha detto che tutti, prima o poi, nella vita, hanno il loro 15 minuti di notorietà. Novaro se ne è accaparrati, immeritatamente, troppi a scapito di una moltitudine di persone che è rimasta senza neanche un minutino di gloria. La vita è iniqua. Si sa.
Criticabile la musica, ma anche il testo non è da meno. Sull’enciclopedia on line Wikipedia leggiamo: Goffredo Mameli, nome con il quale è più noto Gotifreddo Mameli dei Mannelli (Genova, 5 settembre 1827 – Roma, 7 luglio 1849) è stato un poeta, patriota e scrittore italiano.
Il ruolo di patriota gli è totalmente dovuto. Alla luce della sua frenetica attività che ha visto Mameli protagonista di alcuni fondamentali scenari di lotta risorgimentale e della sua morte
a seguito di una ferita infetta che si procurò durante la difesa della seconda Repubblica Romana. Una baionetta amica, accidentalmente, lo colpì alla gamba.
Annoverarlo come poeta e scrittore ci sembra una benevola forzatura, visto che 22 anni di vita sono proprio pochi per diventare un eroe, un grande compositore di liriche in versi ed un autorevole scrittore. Del resto il giovane Goffredo non è riuscito (solo per mancanza di tempo, vogliamo credere) a lasciarci pagine fondamentali per la nostra cospicua letteratura nazionale, se si escludono le cinque strofe de “Il Canto degli Italiani”. E qui è d’obbligo la domanda: possibile che in 53 anni di “adozione provvisoria” non siamo riusciti a memorizzare le cinque strofe nel nostro inno?
Si grida al miracolo quando si riesce a cantare tutti insieme la prima strofa. Con la seconda il coro dimagrisce del 70/80 per cento. La terza, la quarta e la quinta strofa sono li, ma nessuno se le ricorda. Si fa fatica anche a leggerle e, suonano così auliche, lontane, pompose, poco poetiche ed esagerate.
Il nodo principale e su “stringiamci”, che il correttore automatico del computer sottolinea in rosso, ripetuto ben cinque volte e che rende “raccolgaci” un po’ più sopportabile perché appare, fortunatamente, una sola volta.
Messa così la questione “inno d’Italia” ci fa pensare che potevamo essere un po’ più fortunati e che essere prigionieri di un onesto ed oscuro maestro di musica e di un giovane patriota con l’hobby della scrittura sia una vera ingiustizia. Dobbiamo farcene una ragione e soffocare la latente invidia quando ascoltiamo gli inni degli altri paesi. Non cadiamo nella trappola del paragone con l’inno della Gran Bretagna, della Francia, della Germania, degli Stati Uniti o del Brasile. E ripetiamoci: “ogni scarrafone è bello ‘a mamma soja”.
Certo è che se si sfruttasse lo stato di “provvisorietà” del nostro inno, assai bruttino, potremmo trovare una soluzione. E allora “stringiamci” tutti insieme per trovare un inno più bello, che con la sua melodia ci faccia portare la mano sul cuore, che con il suo testo ci unisca ancora di più e che “raccolgaci” sotto l’amato tricolore.
Provocazioni leghiste di mezza estate a parte. S’intende.