Chi conosce Dylan nella sua essenza di artista unico nel suo genere (o meglio, leader incontrastato di un genere) sa benissimo che assistere ad un suo concerto, ascoltare nuovo cd da lui realizzato o prendere atto di una sua rara dichiarazione, sono tutte operazioni che hanno un ampio margine di imprevedibilità. La conferma l’ho avuta dall’ennesimo concerto che sono andato a vedere lo scorso 17 aprile al Palalottomatica di Roma.
Accantonata la presunzione di conoscere assai bene il cantautore di Doluth (ho imparato l’inglese traducendo le sue canzoni e tentando di capire cosa volesse dire nei suoi testi) mi sono “apparecchiato” all’indigesto desco sonoro che anche questa volta ci ha preparato. Sia chiaro, lo definisco indigesto perché molto difficile da digerire, ma allo stesso tempo il suo concerto rimane comunque una prelibatezza che va assaporata con cautela (come la mitica pizza fritta che si mangia a Napoli, serial killer a piede libero dei fegati più sani, ma talmente “buona da morire”).
In perfetta sintonia con il protagonista, anche io mi concedo delle stranezze e comincio la cronaca dalla performance dalla fine, volendo immediatamente fornire un primo dato che è sicuramente sfuggito a tutti i presenti (quelli di Roma, quelli dei concerti passati ed anche quelli dei concerti futuri): i nomi dei musicisti che formano la band. Bob, in momento di grande magnanimità li ha presentati, ma ha così masticato i cognomi da rendere indecifrabile la relativa codificazione. Sul palco, quindi: Tony Garnier (bass); George Recile (drums); Stu Kimball (rhythm guitar); Denny Freeman (lead guitar) e Donnie Herron (violin, banjo, electric mandolin, pedal steel, lap steel). Un manipolo di veri “eroi” che, a fronte di un cospicuo guadagno, si confrontano da vicino con l’ostico Bob che, come è nel suo DNA, è capace di non scambiare una parola con i suoi compagni di viaggio per giorni e giorni. Costretti ad un look da man in black con obbligo di cappello, perché al band leader i cappelli sono sempre piaciuti, si barcamenano con maestria attraverso un canzoniere meraviglioso proposto con arrangiamenti in perfetto stile country rock, infestati dalla debordante personalità di un condottiero che suona una tastiera a modo suo (non essendo un tastierista), la chitarra a modo suo (non essendo un chitarrista) e canta le canzoni a modo suo (non essendo un cantante). Tutto quadra quando, in qualche momento, i valenti session man rimangono da soli, ma le cose complicano (e molto) quando Bob prende in mano la situazione e spariglia tutto.
Che Dylan sia famoso per le “rivisitazioni” che fa delle sue canzoni è un fatto noto da sempre, ma con il passare del tempo la fanatica pratica di “non far capire che canzone” sta suonando è stata portata all’estremo. Il titolo ideale di questa serie di concerti, a mio avviso, è: “Bob Dylan Tour Quiz”. Se Bob voleva vincere la sfida con il suo pubblico, questa volta ci è riuscito alla grande: decodificare canzoni come “Just Like A Woman”, “Desolation Row”, “Ballad Of A Thin Man”, “Like A Rolling Stone” o “Blowin' In The Wind” è stata un’impresa da “gocce di sangue alle tempie”. I ritmi? Cambiati. Le stesure dei brani? Cambiate. Le melodie? Cambiate. Se si aggiungono frasi sbiascicate, parole borbottate e sillabe sgranocchiate, anche capire i testi è diventato un cimento impossibile.
Tutto questo potrebbe far pensare ad un giudizio negativo sull’esibizione del sessantottenne cantautore americano ed, invece, no. Chi ama Dylan a prescindere da Dylan stesso che non ha fatto mai nulla per esserlo, anzi ha cercato in tutti i modi, fin dagli inizi della sua carriera, di demolire il suo mito, non può che essere soddisfatto di trovare il suo “mito” più in forma che mai, ostinatamente fedele a se stesso, esageratamente criptico e sfrontatamente conforme ad uno stile che non ha mai voluto compiacere il suo pubblico.
C’è un modo per rimettere le cose a posto e continuare a considerare Bob Dylan uno dei più grandi artisti del Novecento: assistere ad un suo concerto, faticare oltremodo a capirlo, tornare a casa e prendere i vecchi dischi e riascoltare le sue canzoni come sono nate. Una cosa è certa, se mai nel 2011 Bob decidesse di fare un’altra serie di concerti, io ci sarò, disposto come al solito a sforzarmi di capirlo ed arrivare alla conclusione che forse “non c’è niente da capire”
Sapendo che non gli farà piacere gli auguro: Buon Compleanno!
Che, ovviamente, non festeggerà il prossimo 24 maggio.
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